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Dakar 2020 – 12 giorni a full gas tra cammelli, petrodollari e paesaggi dakARABICI

Ci eravamo lasciati lo scorso anno di questi tempi con questo articolo (www.discoveryendual.com/blog/enduro/dakar-2019-sud-america) sul bilancio del Dakar rally e le prospettive che avrebbero atteso il raid più duro e famoso del mondo con la previsione di una migrazione della carovana sulla rotta Mosca-Pechino che risultava più come un sogno speranzoso che una realtà percorribile.

Il presente lo conosciamo tutti, la ASO ha trasferito i propri bagagli in Arabia Saudita raccogliendo l’offerta piena di petrodollari Sauditi “donati” con il preciso compito di far pubblicità ad una nazione ultra danarosa che sta “diversificando il proprio business” ed evidentemente ha deciso di puntare anche sul turismo, forte di territori che abbiamo scoperto essere assolutamente affascinanti.

Il vil denaro sposta il mondo e con lui la Dakar. Non possiamo volercene, è stato così con il passaggio in Sud America e così sarà sempre, quantomeno questo nuovo capitolo della Dakar è sicuramente risultato più digeribile e meno indigesto tra gli appassionati. Come avevamo detto lo scorso anno ormai si potrà andare ovunque il cordone ombelicale con “mamma Africa” è stato tagliato dal Sud America, le radici accantonate e non si torna indietro, con la ASO alla ricerca di titolo sempre più “meritato” di rally raid globale.

La Dakar rimane sempre e comunque un’avventura, non cambia il valore della competizione, cambiano semmai i valori della competizione! Se dall’Africa tutti i piloti tornavano con la voglia di aiutare le popolazioni locali, dubito che chi tornerà dall’Arabia si sentirà indissolubilmente legato ai Sauditi, dubito che torni a casa illuminato dal sorriso dei bambini, o con la volontà di aprire scuole tra i grattacieli della ultra-miliardaria Jedda.

All’Africa invece ci siamo avvicinati per quanto riguarda i paesaggi, quello si.
Adesso sappiamo che, se in Algeria o Libia è ormai pressoché impossibile andare senza rischiare un colpo di kalashnikov, in Arabia possiamo comunque mozzarci il fiato davanti piste eterne di sabbia bionda o rossa, canyon di roccia profondi o falesie pettinate dal vento che si ergono dai “chot” sabbiosi.
Paesaggi da urlo insomma che tanto ricordano i deserti più belli dell’Africa isolati e pressoché inaccessibili per colpa di stupide guerre.

L’edizione 2020 ha visto il ritorno regolamentare ad una Dakar dalla navigazione forzatamente più improvvisata: vietato l’uso dei “map man” che studiavano il Road Book davanti a Google Earth la notte dando ai piloti i dettagli dei punti più delicati consigliandoli e spiegando nel dettaglio la tappa… tutto finito. Il Road Book, per sei tappe, è stato dato appena 20 minuti prima della partenza, poco più del tempo di mettere due colpi di evidenziatore, avvolgerlo nella strumentazione e partire in apnea per le speciali. Il risultato atteso era quello di avvicinare i “privati” agli ufficiali, rivoluzionare le classifiche ad ogni tappa e mescolare le carte. Il risultato ottenuto invece è stato il solito, gli ufficiali a dettare il passo facendo un altro mestiere con i soliti nomi nelle solite posizioni.

A mio avviso il cambiamento non c’è stato per due ragioni: perché la navigazione in sud-America era diventata assolutamente complessa, a tratti forzatamente complicata ed i map-man avevano un senso, mentre in Arabia le speciali sono state decisamente più scorrevoli e soprattutto perché nulla può sostituire il polso e la capacità di navigare di un Dakariano purosangue.

È stata dunque senza dubbio una Dakar dura, ma la Dakar è dura per definizione. Rispetto a quelle sud-americane invece è risultata globalmente meno tecnica, quasi meno selettiva e con tratti meno enduristici, senza le giganti dune del Perù e senza le devastanti escursioni termiche subite dai piloti nell’arco di una sola giornata trascorsa passando dalla neve dei passi andini ai 40 gradi delle città costiere.
Rispetto al Sud America poi, abbiamo assistito ad un altro fenomeno: mai come quest’anno ci è capitato di vedere piloti arrivare sul cerchio, mousse esplose e pneumatici distrutti. Ne hanno fatto le spese in tanti, dal super ufficiale Toby Price ai nostri italiani Gerini e Cerutti.
La ricerca delle ragioni porta dritta alla velocità. Meoni durante lo sviluppo dell’LC8 oltre alla moto era solito provare anche mousse e copertoni passando giornate intere sul filo dei 200 orari nei piattoni del Nord Africa preoccupato dal peso e dalla cavalleria di quell’affascinante progetto. Da lì in avanti difficilmente abbiamo assistito a distruzioni simili delle coperture, fino ad oggi.

La Dakar saudita, sentendo i piloti a fine tappa e guardando banalmente le medie di arrivo, è stata veloce… DANNATAMENTE VELOCE, con più d’una tappa a toccare medie di 120 orari fino a sfiorare in alcuni casi i 140 (di media!!!).
Questo oltre a sollecitare i mezzi ha avuto un altro risvolto: ha incredibilmente accorciato la classifica!
Viaggiare sempre a gas aperto, per chi ha il pelo di viaggiarci, per assurdo riduce i distacchi, man mano che la velocità media si avvicina a quella massima vuol dire che ci si nasconde sempre più dietro il cupolino attaccandosi al manubrio e puntando il gas per affidarsi quasi completamente al trittico forcella, mono ed ammortizzatore di sterzo.
Dopo 10 tappe ci siamo trovati con 3 piloti distaccati di tre minuti, un buco di 7, ed altri 3 piloti in 3 minuti per un totale di 6 piloti in 20 minuti dopo 5000km! Distacchi da motoGP non certo da navigazione del deserto.

È evidente che in queste condizioni recuperare o stravolgere la classifica senza rotture è molto difficile, l’unico ad essere distaccato dal gruppo è stato Brabec uscito vincitore con ben 20 minuti dagli altri, giusto il tempo del cambio gomma tra le dune a cui è stato costretto Price, ad esempio.

Da questa velocissima lotteria dunque ne esce vincitore Brabec sulla Honda HRC che dopo l’edizione del 1989 con il compianto Gilles Lalay, torna a mettere sul gradino più alto del podio un suo pilota dopo 31 anni di digiuno interrompendo l’incredibile striscia positiva austriaca che ormai sembrava davvero senza fine.

Una vittoria di squadra costruita con metodo, con le tre Honda sempre velocissime, spesso a monopolizzare il podio di tappa. Solo la rottura del motore di Benavides alla sesta giornata ha fatto tremare i polsi ai giapponesi, decisamente l’unico, timido spicchio d’ombra su una Dakar magistrale.

Chiudo con una riflessione inevitabilmente e tristemente necessaria…

Qualcuno in questa Dakar, viste le lacrime amaramente versate, è tornato a domandarsi che senso abbia una gara come la Dakar.
Il fatto è che, finché chi se lo chiede continuerà solo a domandarselo senza solcare in moto l’immensità delle dune, la risposta come sempre la porterà via il vento lo stesso che agli altri invece coprirà le tracce di sabbia.


Ciao Paulo facci sapere se la sabbia bianca delle nuvole è morbida come sembra da quaggiù.

Testo: Dario Lupini

Foto: www.dakar.com

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