Ogni volta che rientro da un viaggio in Africa, normalmente la parte subsahariana che sempre mi ha affascinato sin da bambino, gli amici e le persone che mi seguono attraverso i media mi accolgono sempre diagnosticandomi una patologia tanto cronica quanto romantica conosciuta come “mal d’Africa”.
Ora, durante qualcuna di queste avventure qualcosa, niente di grave, l’ho anche preso ma son certo che non sia nulla di relazionato con il “male”, anzi!
I suoi contrasti e contrapposizioni, i suoi sorrisi, l’umiltà che sà insegnare a chi sà viverne la semplicità del quotidiano, le sue regole sregolate, il clima equatoriale, la natura selvaggia nella quale fortunatamente siamo ancora noi gli ospiti (chissà per quanto ancora); le strade avventurose dove l’asfalto spesso serve da contorno alle buche e quegli sterratoni indimenticabili di terra rossa tra la verde vegetazione ed il cielo blu, come pennellate di qualche variopinto artista divino.
I costanti saluti e benvenuto delle persone che incrocio, i sorrisi dei miei bimbi e le loro unghiette che ogni volta cercano di capire come può essere che dell’inchiostro mi sia finito sotto pelle dando vita a disegni artistici curiosi, il sentire che ancora si può trovare una parte di mondo a misura d’uomo dove il tempo è relativo quanto la distanza (e le indicazioni), dove una maglietta o dei pantaloni utilizzati per più giorni e magari macchiati non ti rendono diverso, ma chi li nota?
Le persone si guardano negli occhi e si conoscono dai fatti.
Le emozioni che mi solleticano anima e cuore ogni volta che rivivo quei momenti, che riguardo le immagini o ne parlo a chi vuole sapere, sono distanti dall’essere un “mal d’Africa”. Io sento più un “amor d’Africa”!
Ed è per questo che negli ultimi anni ho viaggiato abbastanza per questi paesi con il sogno di poterli attraversare tutti, magari in sella alla mia moto, per conoscerne le sfumature e sentirne i profumi. Purtroppo non è facile, nè a livello organizzativo, nè a livello temporale, ben meno a livello economico.
Il primo amore non si scorda mai, dicono. Ed ecco che infatti, tra qualche scappata in Uganda, Rwanda ed altri paesi dell’Africa nera, puntualmente mi ritrovo sempre a casa: in Kenya. Il mio primo amore. Ok, per essere davvero casa ci vorrebbe un garage e le mie due ruote (certo, anche la mia due gambe e le mie due quattro zampe in primis) ma bisogna sapersi anche accontentare, o meglio: improvvisare, adattarsi, raggiungere lo scopo (cit. Gunny).
Ecco quindi che dopo un paio di viaggi ho individuato subito la maniera di risolvere il problema: ho trovato il pusher! Ehi, ma che avete capito… di due ruote! E che due ruote!
Eccola, è lei: monocilindrica 4 tempi da 150cc e ben 11cv, manubrio basso quasi da bicicletta (il clacson poco cambia dal campanello), manopole massaggia-mani, cupolino personalizzato secondo il proprietario che l’ha prestata all’amico di chi l’ha noleggiata a quello che l’ha noleggiata in amicizia a me; sella grande e lunga fatta per trasportare 3-4 persone, ammortizzatori anch’essi ad uopo per un trasporto promiscuo (non vi immaginereste nemmeno cosa riescono a portarci loro), ruote fini per penetrare bene la sabbia con tassellino scavato e ricreato per le zone più impervie o per “volare” (in tutti i sensi) sul corallo, avviamento elettrico ma anche a pedale (le batterie costano) e con 2€ di benzina massimo che metto ogni volta, vado tranquillo per un paio di giorni e mi sento ricco.
Ultimamente il nuovo pusher mi tratta bene: moto pulita, tutto funziona abbastanza bene e l’assicurazione è vera. Il precedente, chiamato “il bandito” (un nome, una garanzia), ogni tanto mi faceva attentati rivestiti da sorprese; come quella volta che mi regalò una bomboletta di spry per sistemare le forature. Strano, ho pensato! E mi ritrovo in mezzo al bush costeggiando il fiume Sabaki alla ricerca di ippopotami, a circa 15km dalla prima strada, con solo qualche capanna di fango e legna ogni centinaio di metri, con il pneumatico anteriore forato dal nemico numero uno dei veicoli in Africa: le spine di acacia.
Grazie Bandito! Mi hai salvato la vita! Rimuovo il tappino dalla valvola, inizio ad iniettare la schiuma e vedo che dal pneumatico, o meglio, dalle decine di fori presenti nel pneumatico, la schiuma inizia a spruzzare ovunque in qualcosa che aveva del surreale.
Vaffanculo Bandito!
Nell’Africa subsahariana, lontani dalle capitali o dalle grandi città, non è facile noleggiare una moto: non si vedono molti turisti in giro, spesso stipati nelle Land Cruiser (o nelle furgonette per risparmiare) e diretti per un safari od a crogiolarsi nelle idilliache spiaggie di qualche resort. Nemmeno c’è molto da andare in giro tranquilli: e dove vai? Quasi non ci sono indicazioni, locali e ristoranti diventano “reali”, le persone che incontri non sono più splendide splendenti come nel resort, è pieno di negri! E tutti ti guardano come se fossi tu il negro! Quando mi vedono su una delle loro moto in giro per i villaggi a volte se la ridono in un misto di “ma che ci fai qui?” e “non sarà un albino?”. I bambini spesso mi urlano dietro salutandomi, qualcuno mi dice direttamente “ciao mozzarella!”. Eppure, pensavo di essermi abbronzato stavolta.
La paura? si, quella di sentirsi diversi. Ma cosa significa davvero essere “diversi”? E quanto importa? Per andare a trovare il Bandito una volta mi infilai in un apparente problema che al momento mi mise un po’ di “ansia”: la stradina della zona dei pescatori di Shella, quartiere islamico (in Kenya l’83% della popolazione è cristiana), è sempre stata una sorta di Tetris motorizzato.
Guadagni punti se riesci a non prendere una delle voragini presenti nell’asfalto con almeno una delle due ruote. Decisi quindi di passare sul marciapiede (mai definizione fu meno vicina alla realtà) non vedendo che proprio li, quel giorno, i pescatori avevano messo ad asciugare le reti.
3-2-1: l’uomo bianco si è pescato da solo. Mi ritrovai con la ruota posteriore, il freno a tamburo e dintorni completamente ingarbugliati nella rete. Ma tu guarda che sfiga! Mi guardai in giro decine di volte: ora sono nella me… lma, qua mi si cucinano con fagioli e coriandolo.
Non vedendo nessuno, decisi di tagliare la rete con il coltello che porto sempre per cercare di liberarmi e ci riuscii pure. Tempo di risalire in moto e:” ehi ehi! Mzungu! (uomo bianco… ndr), stop!”
Gia sentivo il profumo dei fagioli a cuocere con il coriandolo.. E che faccio, scappo? Non è che passo proprio per un local.
I tre pescatori si avvicinarono e… bene, mi diedero una delle più grandi lezioni di vita che ho avuto viaggiando: “se ti capita ancora, fermati e chiamaci. Ti avremmo aiutato. Per noi le reti sono vita”.
Ed io che ero pronto ad incazzarmi con loro per aver messo le reti sul marciapiedi, a trovar scuse ed a lottare nel caso.
Ecco, io invece mi ci trovo bene. È questa è probabilmente la più grande e palese differenza tra turisti e viaggiatori. Ma noi motociclisti, già sporgiamo naturalmente da lato giusto della vita, ci salutiamo quando ci incrociamo, ci diamo una mano se abbiamo problemi, ci fermiamo a parlare anche senza conoscerci.
Per questo ormai da 5 anni in ogni mio viaggio in Kenya, la componente indispensabile è la moto che mi consente di girare ovunque e perdermi tra le stradine del quartiere islamico che profuma di spezie, tra i villaggi nel bush dove non vedi ma sei visto e dove qualche piccolo piange perché sei il primo bianco che vede; nel traffico apparentemente senza regole dei centri abitati o sulla battigia di qualche spiaggia per chilometri durante la bassa marea. Tra una foratura e l’altra che normalmente riparo con 1€ dal primo “meccanico” che ha la sua “officina” sparsa per il prato a lato strada.
Sempre da 5 anni ad oggi, la due ruote è il mezzo che mi porta avanti ed indietro verso uno dei progetti che ho scelto di supportare con cuore e determinazione: la scuola primaria Angaza Junior school del villaggio di Kibokoni, a nord di Malindi.
Durante le varie permanenze nel paese ho maturato ed espresso la volontà di poter fare qualcosa per dare un contributo che fosse ben più di lasciare delle mance o regalare caramelle. Non che regalare soldi e cibo sia qualcosa di sbagliato, ma forse concettualmente, si lo è. Per qualcuno è un modo di nutrire il suo ego e poter fare una foto da far vedere agli amici, per qualcun altro una via d’espiazione dei propri peccati, ok, non per tutti.
Ma credetemi, spesso è così. Ed è ampiamente diseducativo. Se si vuole aiutare davvero qualcuno, gli si insegna come riuscire a farlo da sé magari aiutandolo a trovare i mezzi necessari, primo dei quali, l’educazione.
Credo che l’educazione, l’istruzione, stia alla base di tutto ma che sia molto compromessa nella nostra società: creiamo biblioteche ambulanti (meglio motori di ricerca) che conoscono tutto ma non ne hanno mai sentito l’odore, che hanno cultura da vendere ma poca logica, che sanno a memoria i procedimenti per sostituire una ruota bucata per aver visto su YouTube il video con più click ma non hanno mai avuto il grasso sotto le unghie.
“Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo” scriveva Malala Yousafzai
Girovagando in moto ho conosciuto la realtà di questa scuola grazie a un caro amico, un vero Fratello, motociclista anche lui: 8 classi, più della metà senza pavimento se non sabbia (e insetti), pareti di pietre impilate, tetti di lamiera rappezzata su orditure di rami recuperati in giro dove quando pioveva si doveva decidere da che lato della classe stare per non fare la doccia; banchi rudimentali, bagni, o qualcosa di simile, impervi.
I libri arrivano dal governo grazie agli inglesi, ma non sempre e non tutti. Quaderni e penne anche, ma spesso sono condivisi. La “mia” scuola non è una di quelle governative dove in una classe ci sono anche 60-70 bambini o più (bisogna economizzare), ma una dove si cerca di dare una istruzione reale mantenendo un massimo di 20 bambini per insegnante.
Tra un viaggio e l’altro, tra un sopralluogo e l’altro, il mio cavallo (puledro) di ferro mi trasporta tra villaggi e strade sterrate, tra sentieri di sabbia nel bush consentendo anche di godermi un pòpo’ di off-road che tanto mi manca quando sono qui; senza la forestale che mi grida dietro ma con un sacco di bambini che saltano fuori dalle capanne a dirmi “ciaooo mzungu (uomo bianco)” ma anche “ciaooo mozzarella”… mannaggia agli italiani…
Negli anni e tutt’ora, prima di partire per il Kenya, ho cercato di bussare alle porte degli amici, non senza un certo imbarazzo iniziale, per chiedere qualche contributo; ho aperto raccolte fondi on-line, fatto mostre delle mie foto per ricevere offerte o venderne alcune e grazie a chi ha avuto fiducia in me, cosa di cui vado fiero e che conservo nel cuore con grande onore, ora la “mia” scuola ha un tetto dove non entra acqua, un pavimento degno del nome, le pareti sono intonacate e dipinte interiormente ed esternamente, le lavagne hanno i gessetti. Abbiamo costruito da zero un nuovo locale adiacente che sarà adibito a biblioteca, abbiamo comprato libri, penne, quaderni, cibo ed anche palloni per giocare, c’è una fontanella di acqua nel piazzale!
La moto, che mi segue e mi accompagna, nel bene e nel male, da quando ho 10 anni mi ha dato la possibilità di conoscere e sviluppare una realtà che consideravo tanto lontana ma che ora porto dentro come parte integrante di me.
La libertà che ci regalano le nostre due ruote, ovunque siamo, è forse uno degli ultimi baluardi a consentirci di navigare la direzione del vento che va parallela a quella del cuore, spesso grande sotto le nostre spesse giacche di pelle e cordura e dietro gli sguardi da duri.
Facciamone buon uso, godiamoci ogni momento, lasciamoci portare alla scoperta di nuovi paesaggi e nuove realtà ovunque esse siano, vicine o distanti da casa. Sfruttiamo l’informalità che regala la moto nel parlare e vivere le persone che incrociamo lungo il tragitto perchè, chiunque, può insegnarci qualcosa e regalarci un momento indimenticabile. Stiamo uniti e compatti, alla faccia di chi ci vuole tutti separati ed impauriti per essere più controllabili.
Siamo già fortunati, siamo nati motociclisti!
Testo: Andrea Fast Scaramuzza
p.s. Se qualcuno volesse partecipare alla realtà della scuola, o volesse venire a vedere e toccare in prima persona, beh, sono facilmente rintracciabile. In Instagram (fastsky), su Facebook (Andrea Scaramuzza) e le mie foto sono su Flickr ( flickr.com/fastsky )