I miei viaggi in Africa partono sempre da lontano e da quella voglia di Africa che mi ha colpito fin dalla prima volta che ho attraversato il Mediterraneo nel 2005. Da qui il pensiero ricorrente di capire cos’è il così detto “Mal d’Africa” di cui tanto ho sentito parlare. A distanza di anni e molteplici viaggi in Africa ancora non l’ho capito e credo che mai lo capirò, quindi, per ora, la conclusione a cui sono giunto è che non sia altro che la voglia e il desiderio di scoprire un continente, con le sue peculiarità e stranezze a cui non siamo abituati nella nostra vita quotidiana. Abituarsi a un ritmo di vita opposto al nostro dove tutto quello che non si fa oggi si può fare domani o addirittura dopodomani, dove la vita inizia alle 9 del mattino e comunque con un ritmo lento quasi al rallentatore, dove non ci sono interruzioni fino a sera e non ci sono negozi chiusi per la pausa pranzo. Dove la disponibilità e l’ospitalità delle persone è totale, anche se spesso non incondizionata e ti chiedono un compenso. Dove un tè offerto in segno di benvenuto e cordialità ti rinfranca e ti dà nuova spinta a ripartire dopo un sorriso e una stretta di mano. Forse è questo, a cui noi non siamo più abituati, ad essere il mal d’Africa, la semplicità delle cose che abbiamo dimenticato da troppo tempo.
Anche questo viaggio è partito da lontano con la preparazione alcuni mesi prima, ma il pensiero di tornarci con un nuovo viaggio era ricorrente già dall’ultima volta che sono tornato dal viaggio in Marocco e Mauritania nel 2014, come un tarlo. Mi preparo studiando il territorio e traccio il percorso per una programmazione giornaliera. Naturalmente un viaggio impostato sulla carta di 10-15 giorni è passibile di varianti derivanti dalla diversità di territorio che si attraversa giorno per giorno, ma anche da eventuali imprevisti. Lascio sempre l’ultimo giorno come riserva in caso di ritardo sulla tabella di marcia, visto che si ha sempre quell’ultimo appuntamento importantissimo che non si può mancare con il traghetto per il viaggio di ritorno.
A metà degli anni ’80 acquistai la mia prima moto enduro, una Honda XL 600 usata, e già allora il sogno era quello di circumnavigare il Mediterraneo, il sogno dell’avventura. Il leitmotiv è sempre quello dell’endurista viaggiatore, termine con cui mi piace definirmi, viaggiare in moto attraverso paesi e luoghi da scoprire. Sono sempre stato attratto dalla conoscenza e dalla scoperta di paesi sconosciuti e affascinanti, soprattutto quelli africani, dove si scoprono usi e costumi inconsueti per noi occidentali, ma per far questo bisogna uscire dalle rotte usuali del turismo di massa invasivo che modifica gli aspetti della vita di tutti i giorni.
L’obiettivo fondamentale di questo viaggio era attraversare la catena montuosa dell’Atlas da nord a sud. In questi anni ogni volta che aprivo la carta del Marocco e posavo gli occhi sulle montagne, le cime, che frequentemente superano i duemila metri di quota, mi ispiravano sempre molta curiosità, complici anche i vari racconti, foto e filmati di quelle zone nel web. La fantasia correva sempre molto veloce nella mia testa vedendomi, in quei luoghi, a cavallo della mia fidata e inseparabile moto che preparo in maniera tanto maniacale da arrivare prossimo alla partenza che quasi provo nausea a pensare e a ripensare ogni giorno se tutto è a posto per ridurre il più possibile le probabilità di cedimenti meccanici. A questa legge non si scappa e naturalmente anche questa volta qualche problema si è verificato e mi ha costretto a cambiare il piano di viaggio.
Ma andando per ordine, iniziamo col dire che una quindicina di giorni prima della prevista partenza da Savona il motore della mia moto era ancora aperto sul bancone del garage perché necessitava di sostituzione delle fasce elastiche dei pistoni e fino a quel momento tutto era ancora in forse. Una volta chiuso il motore, sono riuscito a percorrere un migliaio di km per rodare che tutto fosse in ordine e senza problemi e quindi potermi dedicare nell’ultima settimana a curare i dettagli dei bagagli: caricamento della moto, preparazione degli attrezzi e ricambi. Sono talmente ossessionato dal pericolo di non avere quello che mi potrebbe servire per riparare la moto che mi porto più ricambi e attrezzi che vestiti e… mutande 🙂
/Arrivo al fatidico giorno della partenza programmata per le ore 12.00 avendo la partenza del traghetto da Savona alle 23.00. Al mattino sono ancora alle prese con qualche ritocco alla moto, cavalletto laterale smontato e saldatrice per attaccare uno spessore sul punto di appoggio a terra che diminuisca l’inclinazione della moto. Questo intervento si è reso necessario all’ultimo minuto perché la sera prima, dopo aver caricato la moto, sotto il peso delle borse, della tenda e delle gomme di ricambio, l’inclinazione eccessiva rischiava di spezzare il cavalletto.
Tutto il viaggio di 500 km in autostrada lo faccio con un orecchio sempre teso a individuare rumori sospetti, ma tutto si svolge perfettamente. A Genova incontro l’amico Claudio, anche lui africano di vecchia data, con cui la sera mangiamo una pizza e ci raccontiamo gli ultimi pastrocchi che facciamo sulle nostre moto (sta costruendo un’Africa Twin super leggera e super modificata che credo arriverà a pesare non più di 150 kg!). Tra una chiacchiera e l’altra facciamo tardi, dopo avergli lasciato l’abbigliamento da moto on-road ed aver indossato quelli da off-road devo fare una bella corsa per l’imbarco ed arrivo a Savona solo una mezz’ora prima della partenza.
Nei due giorni di navigazione ho tutto il tempo per rivedere, studiare e imprimermi bene in mente tutte le tracce che ho programmato con l’ausilio del GPS e della carta stradale Michelin, approfitto anche per rilassarmi e dormire visto che nell’ultimo mese di preparativi ho potuto farlo poco.
Lo sbarco a Tangeri Med avviene verso la mezzanotte del 9 ottobre e la prima cosa da fare è trovare l’hotel che avevo individuato in rete a 30 km circa in direzione est, cioè in direzione dell’attraversamento dell’Atlante. Il mattino seguente, pronto alla partenza verso questa nuova avventura, accendo il GPS per impostare la traccia da seguire e… non c’è più niente, tutto sparito, tutte le 23 tracce che avevo preparato con mesi di lavoro erano sparite. In quel momento mi è venuto il panico ed ho iniziato a pensare agli scenari più catastrofici. Il peggiore era che senza tracce avrei potuto affidarmi solo alla carta stradale e quindi abbandonare il sogno di attraversare l’Atlante su piste, ma farlo solo su strada. Lo sconforto era enorme, il sogno era finito ancora prima di iniziare. Fortunatamente, cercando di essere il più previdente possibile in fase di preparazione, la sera prima delle partenza mi era venuto la splendida pensata di portare una chiavetta USB con tutte le tracce, la cosa mi confortava e bastava trovare un pc per poterle caricare. Mi rivolgo alla reception dell’hotel IBIS che molto gentilmente si mette a disposizione per aiutarmi a risolvere il problema di non immediata soluzione. Riesco a scaricare il software di Garmin necessario per caricare sul GPS le tracce ma l’installazione si rivela impossibile a causa di restrizioni che solo l’amministratore di sistema può autorizzare e naturalmente nessuno sa chi sia. Dopo aver perso un paio d’ore nel girare i vari pc dell’hotel, mi accompagnano presso un internet caffè dove riesco a fare tutto, ma tra una difficoltà e l’altra parto solo dopo mezzogiorno, ormai la tappa giornaliera programmata se ne va in fumo. Dopo aver fatto circa 200 km sulla costa mediterranea, approfitto di un gommista per sostituire le gomme alla moto, in modo da togliermi peso e ingombro superflui e avere gomme nuove per attaccare le piste.
Prima che faccia buio, trovo un hotel per la notte, bello lussuoso… fin troppo, nelle prime due notti ho già speso troppo per dormire rispetto agli standard del Marocco che si aggira attorno ai 10/20 euro a notte, ma questi sono lussuosi e quindi si fanno pagare e per di più non ho alternative.
Al mattino dell’11 ottobre inizia il viaggio “vero”, ho solo una cinquantina di km da fare sulla costa prima di attaccare la pista sull’atlante, che si inerpica subito in maniera ripida. Con il pieno di tutti i serbatoi di benzina (40 litri) e i bagagli salgo in prima e seconda marcia e mi fermo spesso per raffreddare il motore, scattare alcune foto e godermi il paesaggio che inizia a cambiare e mi regala delle viste dall’alto uniche. La moto alla prima fatica vera si è comportata alla perfezione senza alcuna esitazione.
Dopo un centinaio di km lascio le prime montagne che si trasformano in un altopiano, la temperatura è cambiata totalmente, si sente già la diversità dal clima mediterraneo che con una leggera brezza rinfresca, la pista diventa difficile e, complice il poco allenamento estivo, a causa del ginocchio destro malandato, inizio a sentire la fatica. Il caldo secco non dà la percezione di sudare ma so che devo bere molto e proprio per questo mi sono rifornito di acqua, oltre ai due litri del camelbag ho altri due litri in una bottiglia con sali minerali fissata al ragno sulle borse.
Sceso dalla prime montagne sulla piana, perdo la pista un paio di volte quindi non mi resta altro che affidarmi alla traccia del GPS, d’altronde qui basta una pioggia di qualche minuto per cancellare la traccia sul terreno. Più vado avanti e più mi rendo conto, o meglio ricordo, che le distanze sono abissali e la lettura sulla carta dà un’impressione diversa rispetto alla realtà; i tempi di percorrenza sono lunghi e inizio a pensare che probabilmente non arriverò prima di sera a Gourcif, la città dove ho previsto di fermarmi per la notte.
Devo fermarmi più volte all’ombra per riprendere le forze e non stancarmi troppo, voglio evitare di fare errori di valutazione che porterebbero a cadute. Nel primo pomeriggio mi fermo più di un’ora presso un negozio di alimentari sperduto nel nulla, vicino a una strada asfaltata. Molto cordialmente mi invitano a risposarmi, il sole è alto e il cielo limpidissimo, seduto all’ombra e al fresco sento che piano piano tornano le forze, approfitto per bere molto, intanto osservo la gente che passa sulla strada e si ferma in questo negozietto sperduto in mezzo ad una piana circondata da monti. La gente sosta qui non solo per comperare qualcosa, ma anche solo per salutare e scambiare quattro chiacchiere con il proprietario o con chi si trova in quel momento all’interno. Capisco che questo è un punto di incontro, un posto dove ci si dà appuntamento o dove si cerca un passaggio. Ripresa la mia strada, il caldo mi fa evitare gli ultimi chilometri di pista e riesco ad arrivare a Gourcif, faccio un giro per la città in cerca di un hotel. La città si dimostra caotica, sono stanco e non ho molta voglia di girare per quel caos quindi torno sui miei passi e ripercorro alcuni chilometri sulla strada da cui sono venuto per fermarmi in un hotel che nel frattempo avevo già notato. Il prezzo è abbordabile e anche la stanza non è male, soprattutto sembra pulito, anche se ha un po’ l’aspetto di casa di appuntamenti con le pareti colorate di rosso, purtroppo non fanno da mangiare ma il ragazzo fa una telefonata è si fa portare nel giro di mezz’ora un Tanjin al pollo e verdure che divoro.
L’intenzione è quella di partire il giorno dopo al mattino presto per evitare il caldo delle ore di mezza giornata e quindi vado a dormire presto, anche perché motivi attrattivi per fare le ore piccole non ce ne sono. Il 12 ottobre parto abbastanza presto e, imboccata la pista, ho trovato subito un vento molto forte che rende impossibile continuare, quindi decido di tagliare il primo tratto e salire direttamente sulle montagne facendo strada asfaltata. La pista si presenta subito molto buona e in assenza di vento, larga e scorrevole per parecchi chilometri ma dopo un po’ iniziano i salitoni con molte parti esposte e la pista che diventa tortuosa. Talvolta ho l’impressione di aver sbagliato, ma decido di fidarmi della traccia sul GPS e arrivo a toccare i 2.000 metri di quota.
I paesi di montagna sono formati da poche case e i pochi abitanti, che vivono di pastorizia in questi luoghi sperduti, appena sentono il sound del motore della mia moto che interrompe il silenzio assoluto, si affacciano per vedere incuriositi chi passa. I ragazzini mi corrono incontro. In un bivio sbaglio pista e nel fare manovra in un tratto di pietre, sotto gli occhi di due ragazzine sedute su un muretto, appoggio la moto sul lato sinistro. Gli improperi si sono levati nel silenzio della montagna appena vedo che il serbatoio da quella parte ha una piccola perdita nella parte bassa, un trasudamento, poca cosa ma per evitare di perdere tutta la benzina inutilmente ho proseguito usando solo quel serbatoio fino a svuotarlo; l’importanza di avere benzina a sufficienza è seconda solo all’acqua da bere. Iniziato l’ultimo tratto di una cinquantina di chilometri su un altopiano, ho perso nuovamente la pista, per qualche centinaio di metri mi affido al GPS ma la pista termina in un canalone impossibile da superare, probabilmente scavato dal passaggio dell’acqua. Dopo aver percorso il lato del canalone per trovare un passaggio sono tornato indietro a un bivio precedente, per capire se la pista aveva subito nel tempo delle varianti, visto che la traccia che avevo nel GPS era vecchia di un paio di anni. La nuova pista mi porta a una casa di pastori dove non vedo nessuno. Da una stalla escono alcuni cani che mi abbaiano, come scendo dalla moto per avvicinarmi alla casa e chiedere informazioni i cani si moltiplicano e diventano quasi una decina, mi circondano minacciosi e iniziano a ringhiare mettendo ben in vista tutti i denti e diventando sempre più aggressivi, raccolgo un bastone da terra e cerco di tenerli lontani, ma sono veramente spaventato, non mi sono mai trovato in una situazione simile. Fortunatamente dalla casa esce una donna berbera attirata dall’abbaiare dei cani e, lanciando alcuni sassi, li allontana permettendomi di rilassarmi, riesco a farle capire che sto cercando la pista per proseguire e a sua volta mi fa capire che devo attraversare il canalone. Mi allontano dall’abitazione sempre sotto il vigile sguardo dei cani che continuano ad abbaiarmi fino a un rudere che si trova ad una cinquantina di metri. A piedi provo a vedere se trovo una pista come indicatomi dalla donna ma senza risultato, le pareti sono troppo ripide per oltrepassarle, quindi desisto e valuto la possibilità di accamparmi con la tenda all’interno del rudere, al riparo del vento e abbastanza distante dai cani.
Dopo aver montato la tenda e visto che il sole era ancora alto, cerco un eventuale passaggio a piedi da fare con la moto il giorno dopo ma senza risultato, quindi studiando la carta stradale decido che tornerò indietro di una decina di chilometri per imboccare la strada asfaltata fino a Midelt, il traguardo che avrei dovuto raggiungere quel giorno.
Prima che faccia buio, arriva anche il capo famiglia, valuto che avrà circa quarant’anni ma ne dimostra molti di più, ha una giacca pesante in lana con una manica strappata per metà all’altezza della spalla, ogni volta che parla si muove la dentiera che ha in bocca, segno evidente che non è la sua, probabilmente ereditata dal padre o acquistata da qualcuno, usanze diffuse da queste parti. L’uomo mi fa capire che è meglio non mi avvicini alla casa per non essere aggredito dai cani e che la pista che porta a Midelt si inerpica sulle montagne, è difficile o non esiste più, non ho capito bene cosa volesse dire esattamente ma quello che è certo è che devo tornare indietro. Penso sia inutile andarsi ad infilare in avventure pericolose. Mi addormento presto quasi subito dopo il tramonto. La notte passa con un orecchio sempre teso e allarmato da eventuali rumori di avvicinamento dei cani, verso le 4 del mattino inizia a piovere ed impreco alla sfiga che mi accompagna, penso al terreno infangato che troverò al mattino ed alla difficoltà di smontare la tenda e caricare la moto sotto la pioggia.
All’alba del 13 ottobre mi sveglio e mettendo il naso fuori vedo che il terreno è asciutto ma la tenda ancora bagnata, quindi preparo i bagagli e carico la moto ma decido di rimanere ancora all’interno in attesa che il telo si asciughi per evitare che nel sacco faccia la muffa.
Alcune gocce continuano a scendere e non mi rimane che aspettare, sono all’inizio della vacanza quindi tempo ne ho in abbondanza e poi devo abituarmi ai tempi del luogo che non sono certo quelli cui siamo abituati noi. Dopo un po’ si avvicina l’uomo del giorno prima che si annuncia con un colpo di tosse, vedo che mi ha portato un po’ pane con tè caldo che accetto molto volentieri e gli offro alcuni dirham per ringraziarlo della cortesia. I cani lo accompagnano e a ogni mio movimento abbaiano seppur a distanza, l’uomo ogni tanto gli tira un sasso per farli smettere, ma dopo alcuni secondi ricominciano fino a che il padrone non se ne torna verso la casa, scortandolo. Dopo circa una mezz’ora il sole e l’aria asciugano la tenda così la smonto e riparto sempre sotto l’occhio vigile e l’abbaiare dei cani che mi inseguono per un centinaio di metri.
Come avevo programmato il giorno prima, torno indietro sulla pista per una decina di km ed imbocco la strada asfaltata verso Missour. Arrivo in città nel primo pomeriggio e, dopo i primi giorni a panini e barrette, mi fermo in una brasserie di strada a mangiare e riprendere bene le forze; qui tagliano la carne di agnello al momento e la cucinano, una prelibatezza.
Riparto per coprire i 100 km verso la città di Midelt. Appena imbocco la pista sono costretto a tornare indietro a causa del forte vento che tira da ovest e non mi fa rimanere dritto con la moto e mi rendo conto che è impossibile continuare sulla pista. Quindi ripiego sull’asfalto e non riesco a tenere la moto dritta nemmeno andando a 70 km/h, in quel tratto non si trova nessun centro abitato, la strada è completamente dritta a piombo ed attraversa la piana per decine di km che percorro sempre con la moto piegata. Il vento solleva molta sabbia, le macchine e i camion che incrocio nell’altro senso ne sollevano ancora di più e sbattendo contro la mia faccia sono costretto a fermami e indossare il sotto casco a passa montagna per coprire il viso, la bocca e il naso.
Arrivo a Midelt e, come di consuetudine, cerco e trovo un hotel a buon prezzo; dopo essermi sistemato faccio un giro per la città delle mele, chiamata così perché la coltivazione delle mele è la maggior fonte di sostentamento della regione. Nel passeggiare in cerca di un posto dove mangiare, vedo passare un endurista impolverato con un’Honda Transalp che si infila dentro un cortile, lo seguo e scambiamo quattro chiacchiere. Si tratta di uno spagnolo, tutto impolverato e sudato, mi dice che fa parte di un gruppo di motociclisti e che attraversando il lago Iriki è caduto procurandosi una distorsione al ginocchio. Stava tornando verso nord su asfalto mentre i suoi compagni di viaggio continuano il tour in off, per poi incontrarsi all’imbarco del traghetto.
Fine prima parte
Foto e testo: Efesto Moros