Dakar, si fa presto a dire Dakar…
Non sono uno di quelli che a priori odia la Dakar sudamericana; dopo qualche anno ho superato il distacco dall’Africa, ho maturato la consapevolezza che verosimilmente (e per fortuna) le storie di Aldo Winkler che passa le notti perso nel deserto come face a sua volta Sabine non si ripeteranno più, ho superato anche il fatto che una volta in cima alle dune c’erano (forse) i tuareg con i loro turbati mentre ora c’è una folla di sudamericani con i frigoriferi e le bibite ghiacciate, sono anche quasi riuscito ad accettare l’allungamento medio dei trasferimenti ed il passaggio su strade asfaltate a quattro corsie.
Ho accettato tutto questo perché nel 2008 effettivamente la situazione in Africa era delicatissima e l’organizzazione di un rally internazionale come la Dakar non si può permettere di sommare alle incertezze di un’avventura del genere anche quelle politiche del luogo.
Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito ad una crescita complessiva della manifestazione soprattutto dal punto di vista del volume di soldi messi in movimento.
Sono tornati i main sponsor e le televisioni, abbiamo riprese delle dune del Perù, dei deserti di sale della Bolivia e delle pampas Argentine che mozzano il fiato, insomma abbiamo perso il fascino dell’essenzialità dei bivacchi e della solitudine del deserto ma senza perdere la durezza dei percorsi o il fascino dei territori attraversati, e tutto senza contare che in Sud America l’organizzazione ha guadagnato visibilità, sponsor e serenità per lavorare.
Tutto bello dunque, se non fosse che in realtà negli ultimi anni qualcosa ha iniziato ad incrinarsi e soprattutto con l’edizione appena conclusa qualcosa si è rotto definitivamente.
Gli anni scorsi ci si interrogava sulla leggerezza di una macchina organizzativa che veniva sorpresa dalla stagione delle piogge sudamericana come se avesse messo in piedi il rally più grande del globo senza neppure aver letto la guida Lonely Planet del luogo, con conseguenti annullamenti di tappe alluvionate e spostamenti dei bivacchi senza avviso, anche di 600km, solo alla fine della tappa.
Quest’anno le cose si sono definitivamente complicate.
Già a fine estate 2018 la Aso si è dovuta scontrare con problemi organizzativi sostanziali.
Abbandonata l’Africa infatti, l’organizzazione ha avuto gioco facile nel chiedere ai paesi ospitanti una quota per far passare la carovana sui territori.
Argentina, Bolivia, Chile e Perù facevano a gara ad accaparrarsi a suon di dollari le giornate di gara, facendo il gioco dell’organizzazione che complici i social iniziava ad avere una visibilità che non aveva dagli anni 90.
La Aso insomma guadagnava dalle iscrizioni, dagli sponsor crescenti e dai paesi ospitanti, cosa mai vista in Africa per ovvie ragioni economiche.
Quest’anno però i paesi hanno tirato la corda, rifiutandosi di pagare le quote ormai arrivate alle stelle.
Complice una crisi economica devastante l’Argentina (la più ricca ed occidentale delle nazioni) si è subito tirata indietro determinando l’abbandono dal tavolino delle trattative anche di Bolivia e Chile. Il Perù dunque, a 6 mesi dalla partenza e con una gara tutta da reinventare, ha avuto gioco facile nell’ottenere l’esclusiva ad un prezzo irrisorio fino all’anno scorso.
Dopo la Parigi-Città del capo, la Parigi-Dakar-Parigi e tutti gli altri esperimenti degli ultimi 30 anni, per la prima volta abbiamo una gara che si corre su circa 5000km e per la prima volta con in percorso districato in una sola nazione ed il cui motto “100% Perù” dovrebbe suonare più come una vergogna che come una pubblicità che il markerting ostenta in ogni dove.
Ricapitolando, la Aso si è trovata ad Agosto a dover reinventare la gara senza Marc Coma ultimo tracciatore delle Dakar Sud americane, ed il risultato è stato quello prevedibile: road book messi sotto inchiesta ed una navigazione inutilmente complessa, volta più a complicare la vita che ad orientare i piloti nell’ignoto.
Le parole di Elena, storico navigatore dell’infinito Sebastian Loeb, che accusa espressamente l’organizzazione per l’inadeguatezza dei Roadbook hanno fatto il giro del mondo e sono andate a braccetto con la necessità assolutamente manifestata di correre solo per gli sponsoruna gara vista come perdita di tempo a cui sarebbe preferibile la variante africana (Africa Eco Race).
Queste parole nel cuore dei nostalgici hanno avuto il suono di un violino che invece ha distrutto i timpani degli organizzatori.
A questo si è sommata la polemica sulla tappa nr.8 che ricalcava una tappa precedente ma percorsa in senso contrario come se in Perù non ci fosse abbastanza fuoristrada e, ciliegina sulla torta, il trattamento riservato al nostro Nicola Dutto escluso alla quarta tappa quando ormai aveva già varcato i limiti dell’onnipotenza.
Ci sarebbero da stendere chilometri di inchiostro solo su quest’ultimo argomento, ma in buona sostanza l’effetto che ha avuto sulla gara è stato quello di aver messo a nudo tutte le problematiche di una organizzazione arrivata di corsa e con il fiato corto, che in più di una circostanza ha mancato l’obbiettivo.
Ed ora?
Ora son problemi…
L’Africa Eco Race agli occhi degli appassionati continua a guadagnare i punti che perde la Dakar sudamericana, la Aso da domani dovrà rifare i conti con un territorio che non ha più voglia di pagare le cifre di un tempo ed in qualche modo la Dakar dovrà reinventarsi.
Internet, che notoriamente è la cassa di risonanza dei pareri autoreferenziati di ognuno, ha iniziato a vibrare. In rete si inseguono le certezze di chi già sa per certo che si tornerà in Argentina e quelle di chi, per fonte incontrovertibile, ha saputo che la ASO sta pensando al ritorno in Africa.
Onestamente il ritorno in Africa lo vedo difficile, ci sarebbe da togliere terreno a l’AER e da ammettere che il problema di sicurezza ostentato in questi anni non è poi così grave. Inoltre la ASO andando in Sud America ha provato l’ebrezza di avere delle nazioni ospitanti paganticosa che in Africa finirebbe, e si sa… nel motorsport il denaro purtroppo a riesce muovereanche la passione.
Il Sud America d’altro canto è diventato un gioco d’azzardo dopo questa edizione che è stata riorganizzata in meno di 6 mesi e, come nel 2008, la ASO non può permettersi di sommare alle tante difficoltà logistiche di una gara del genere, la possibilità di sorprese da parte dei paesi ospitanti.
Dunque?
Dunque ormai la Dakar può andare ovunque.
Se nel 2008 abbandonare l’Africa fu difficilissimo perché si tagliavano le radici della leggenda, abbandonare il Sud America non sconvolgerà nessuno; la Dakar dovesse ricambiare continente si fregerà sempre più del titolo di rally raid globale e l’avventura continuerà, ma dove?
Alla Aso occorrono paesaggi immensi, deserti sterminati, paesi stabili possibilmente ricchi, magari esotici.
Mi piacerebbe un rally nel deserto dell’Iran o magari tra Tibet ed Afganistan, ma di certo non sono paesi stabili e ricchi.
La soluzione migliore che vedo è una traversata dalla Russia alla Cina immaginate che figata i soldi di Russia e Cina alla ASO, a noi le steppe mongole, i deserti cinesi e le tundre russe, l’unico ostacolo il fatto che si partirebbe dalla Russia a Gennaio… bhè con tutti quei soldi sono convinto che la ASO saprà curare anche questo problemino!
Ovviamente è tutto fantarally non c’è nulla di confermato o basato su indiscrezioni.
Questa idea è solo una follia del sottoscritto che per un rally del genere potrebbe pensare di fare la licenza!
A conferma del fatto che è un’idea campata in aria mi potreste subito far notare che già esiste ed è esistita una Mosca Pechino, ma d’altro canto… non ve lo ricordate l’Incas Rally?
Alla prossima!
Testo: Dario Lupini
Immagini: Press Ktm – Press Husqvarna – Press Yamaha
Video: #Dakar